di Torquato Cardilli - Durante la guerra fredda, il mondo occidentale, si sentiva garantito dal cosiddetto equilibrio del terrore, guardava con sufficienza l‘indipendentismo africano, osservava con altezzosità il risveglio del gigante cinese e viveva, tutto sommato, un periodo di relativa pace e tranquillità, con robusti scambi commerciali in una corsa al progresso industriale.
Gli USA e l’URSS, paesi detentori non solo dell’arma atomica ma soprattutto dei sistemi per colpirsi e distruggersi a vicenda, a migliaia di chilometri di distanza, si spiavano e si minacciavano di continuo potendo contare sul fatto che un minuto prima della catastrofe sarebbe scattata la famosa linea rossa tra la Casa Bianca e il Cremlino.
Nonostante il susseguirsi di crisi regionali anche gravi (Suez, Ungheria, Cuba, guerre del M.O., Vietnam, fine apartheid, Falkland ecc.) ciò che teneva banco era la gara a due tra USA e URSS per la supremazia in campo militare, politico e tecnologico. I due giganti si sfidavano dallo schieramento dei missili balistici all’esplorazione spaziale, con penetrazioni nel Sud del mondo alla ricerca di basi militari strategiche, di sfruttamento di risorse, di sobillazione di colpi di stato con la giustificazione ipocrita di esportare i cosiddetti principi della democrazia o quelli utopistici del comunismo.
Queste superpotenze per evitare lo scontro diretto sul campo, si avvalevano degli stati cuscinetto nelle rispettive zone di influenza, inglobate in forti alleanze militari: da una parte la NATO e dall’altra il Patto di Varsavia. I loro membri venivano definiti eufemisticamente paesi alleati, ma di fatto erano vassalli serventi, incapaci di qualsiasi iniziativa politica propria, autonoma, in dissonanza con gli interessi della potenza egemone che ne controllava i gangli vitali.
Due generali avevano provato ad alzare la cresta: De Gaulle uscì temporaneamente dalla Nato vantando la sua “force de frappe” e Tito criticò aspramente la politica di Stalin. Il primo rientrò nei ranghi poco dopo, mentre il secondo, pur restando comunista, fu considerato dall’Urss come un eretico con il suo movimento dei non allineati.
In uno stato di ammirazione e di soggezione verso questi due blocchi c’erano altri attori di terza fila in America Latina, in Asia e in Africa, mentre l’Europa, pur saldamente nel campo occidentale, ambiva a costituire un nuovo modello di coesione e di sviluppo, ispirata dalla visione politica di tre grandi leader Adenauer, De Gasperi, Schuman.
Dopo il trattato sulla non proliferazione nucleare, il primo spiraglio di consolidamento di pacifica convivenza fu l'Atto di Helsinki del 1975 che prevedeva l'impegno di tutti i paesi firmatari a contribuire alla sicurezza europea, a rispettare i diritti umani, l'intangibilità delle frontiere europee e la non interferenza negli affari interni di altri Stati.
Negli anni ottanta le due superpotenze avevano circa 70.000 testate nucleari e con i trattati Start I del 1991 e Start II del 1993 sui missili balistici, le ridussero a un terzo.
La guerra fredda stava evaporando. Il ritiro sovietico dall’Afghanistan, il disgelo avviato da Gorbacev (unico politico russo premio Nobel per la pace nel 1990) con la perestroika e la glasnost, la caduta del muro di Berlino, il disfacimento dell’URSS con lo scioglimento del Patto di Varsavia, costituirono il vero tornante storico della fine del secolo.
Invece la Nato, che a rigor di logica politica, avrebbe dovuto fare altrettanto per dare un reale maggior contributo alla distensione, mostrò la sua vera natura espansionistica, ispirata dalla latente vocazione degli Stati Uniti ad un neo imperialismo sul piano economico, politico e militare.
Il duopolio nucleare si era nel frattempo allargato alla Cina. Era nata di fatto ad una triade di super potenze del CdS dell’ONU con due paggetti di seconda fila Gran Bretagna e Francia.
Ciascuno dei tre grandi, secondo un metro di giudizio puramente nazionalistico, non aveva smesso di accarezzare l’ambizione alla supremazia regionale, minando alla base, progressivamente, l’autorità, la forza e la funzione delle Nazioni Unite.
Tutti gli altri paesi, così come le Organizzazioni internazionali fulcro e fucina del multilateralismo, garante di pace e cooperazione, restavano al bordo del ring, tifando con moderazione per l’uno o per l’altro, senza esagerare per evitare guai peggiori.
Questa incapacità di una politica europea autonoma, rispetto ai giganti significava, alla prova dei fatti, il superamento del multilateralismo, relegandolo ai libri di storia e delle relazioni internazionali.
Kissinger, solo qualche anno fa, sosteneva che il mondo del XXI secolo aveva bisogno di un cambiamento di paradigma, come era accaduto nell’epoca post napoleonica. Per avere un altro periodo di pace sarebbe stato necessario tornare alla diplomazia della restaurazione dei vecchi imperi ed alla diffusa liberalizzazione della società e del mercato.
Ma l’analisi Kissingeriana, formulata più con un occhio agli interessi dell’America che non dell’Europa, non aveva previsto che i tre “imperi” americano, russo e cinese non si sarebbero accontentati di convivere mantenendo il controllo sulle rispettive aree di influenza. Spinti da un irrefrenabile desiderio di testarsi reciprocamente per misurare la capacità di reazione avrebbero messo in moto politiche di espansione economica e diplomatica in vista dello scontro finale per l’egemonia mondiale.
Gli Stati Uniti convinti di essere i più forti hanno innescato e condotto, con il forzato avallo ex post dell’ONU e della NATO, tutte le guerre degli ultimi venti anni (Serbia, Iraq, Libia, Siria, Afghanistan) perdendole disastrosamente dopo avervi coinvolto, come servi sciocchi, gli Stati europei che non avevano nulla da guadagnare in termini di potenza,. di prestigio di rapporti economici, se non la difesa della vanagloria dei propri governanti.
A Washington non avevano capito che insistendo con quelle guerre avrebbero indotto la Russia (ripresasi dal disastro post Gorbacev) e la Cina (entrata a far parte del capitalismo mondiale) a tentare analoghi azzardi e che sostituendo la pacifica convivenza con una vasta semina di odio avrebbero dato un impulso vigoroso al terrorismo internazionale.
Nell’ultimo ventennio (dall’attentato alle torri gemelle fino ai giorni nostri) questo mostro non ha fatto altro che diffondersi ovunque e colpire con un’intensità ed una ferocia mai vista prima (vedi lo stato islamico del Daesh e Hamas) mietendo vittime a casaccio, incutendo terrore nella società civile indotta a reazioni razziali, di chiusura in se stessa.
Di questo stato di cose hanno tratto giovamento politico proprio gli altri due competitor Russia e Cina
La Russia ha reagito alla arrogante provocazione americana di operare, contro le intese, un accerchiamento ai suoi confini estendendo la Nato agli Stati baltici, fino ad allora comodi cuscinetti anti confronto diretto, e fomentare il colpo di Stato di piazza Maidan, a Kiev, con la promessa dell’incorporazione nella Nato dell’Ucraina stessa e della Georgia.
Dopo il rifiuto americano di accettare l’offerta di Putin di discutere sulla sicurezza collettiva dell’area, la progressiva realizzazione di questa politica imperialistica americana è stata il casus belli che la Russia ha colto riprendendosi la Crimea e poi invadendo con la forza l’Ucraina con l‘obiettivo di esercitare il protettorato sulle repubbliche autonome di Donetsk e Luhansk (Donbass), e l’accorpamento delle province di Zaporizhzhya e Kherson, annesse per decreto.
Come detto ne ha approfittato anche Pechino che ha sfruttato il momento per riproporre il tema della riunificazione di Taiwan alla Cina continentale, considerata un processo irreversibile. Questa pretesa trova l’ancoraggio politico-giuridico nel fatto che la Cina, all’atto dello stabilimento dei rapporti diplomatici con gli Stati Uniti nel 1971, ottenne il riconoscimento scritto del principio dell’esistenza "di una sola Cina" con l’attribuzione del seggio in Consiglio di Sicurezza sottratto a Taiwan che venne espulsa dall’ONU.
Finora il Governo di Pechino ha tenuto questa cambiale nel cassetto ricordando al mondo che sarebbe stata presentata all’incasso al momento opportuno.
Se l’amministrazione di Biden fino al 2024 è stata capace solo di spingere l’Ucraina al massacro e gli alleati a contribuire a quella carneficina con sforzi economici e militari, con l’avvento di Trump è iniziato un nuovo periodo: il pendolo dell’avventurismo si è spostato geograficamente in direzione opposta verso Israele e Gaza.
Resosi conto che la riconquista dei territori perduti dall’Ucraina è impossibile, Trump ha dato il via a un tentativo di comporre il conflitto con la Russia sulla base dello status quo salvo piccole correzioni. Dall’altra parte ha consolidato la già robusta alleanza con Israele arrivando al punto di propugnare la espulsione da Gaza e la deportazione altrove di tutti gli abitanti sopravvissuti allo sterminio praticato da Netanyahu (ricercato dalla Corte penale Internazionale) con definitiva sepoltura dei diritti umani e del principio dell’autodeterminazione dei popoli.
In questo primo mese di esercizio del potere Trump ha scatenato un ciclone nel mare già agitato della politica estera: ha sconvolto quel simulacro di Unione europea e le pavide cancellerie europee, ha stracciato l’accordo sul nucleare con l’Iran, ha sepolto gli accordi sul clima di Kyoto e di Parigi, ha bloccato la Corte dell’Organizzazione mondiale del commercio, ha ordinato la sospensione dei contributi a varie Organizzazioni internazionali inclusa quella per i rifugiati, (con il voto vergognoso dell’Italia alle Nazioni Unite contro la Palestina e contro gli aiuti alla UNRWA) ha annunciato l’uscita dalla Commissione ONU per i diritti umani, dall’UNESCO e dall’OMS, ha varato sanzioni contro la Corte Penale Internazionale (anche qui pedissequamente seguita dall’Italia in antitesi agli altri partner europei) e ha chiesto agli alleati di portare il loro contributo alla Nato al 5% del PIL.
Ma ciò che ha fatto squillare più di un campanello di allarme rosso nel mondo sono state le dichiarazioni imperiali contro i paesi di confine ben al di là della politica ottusa e retrograda dell’imposizione di nuovi dazi contro tutti, alleati compresi.
In un eccesso di delirio imperialista il presidente americano ha rivendicato il possesso di Panama, l’acquisizione della Groenlandia, la possibile annessione del Canada, e in omaggio ai legami familiari con l’ebraismo ha manifestato il desiderio di appropriarsi di Gaza, per farne con le armi un territorio americano d’oltremare, da consegnare a tempo debito ad Israele.
Insomma ha dato l’avvio ad una spirale di protezionismo, di rivendicazioni, di pretese inaccettabili per il resto del mondo ma gradite solo ai governi nazionalisti di Argentina, Italia, Ungheria, Israele, e Repubblica Ceca illusi che piegandosi al vassallaggio verso una politica dispoticamente ottocentesca si possano difendere meglio i propri interessi
Non so se il Governo italiano e la sua maggioranza parlamentare si rendono conto del pericolo di questa esibizione muscolare di neocolonialismo. Certamente il popolo italiano l’ha capito, così come i sei miliardi di umanità del resto del mondo.
Siamo seduti sull’orlo del burrone e basta un nonnulla per perdere l’equilibrio e precipitare verso l’autodistruzione.
Torquato Cardilli
09 febbraio 2025
Analisi perfetta della reale situazione ma che vede tanti nani a capo dell'Europa perdere di vista il loro ruolo.
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