di Torquato Cardilli - I propositi di Trump in politica estera vengono definiti dai sovranisti europei in modo benevolo come strampalati, ma sarebbe più adatto un tono maggiormente severo per sottolineare lo stile megalomane, pericoloso e irriguardoso verso le regole e il diritto internazionale.
Commissione UE, politici occidentali, analisti, sondaggisti pur avendo avuto molto tempo a disposizione per fare corrette analisi, credibili previsioni, e avanzare ipotesi di contromisure, lo hanno sprecato nella più completa inettitudine, cullandosi nell’illusione che i truffaldini concetti di volere la pace facendo la guerra propalati dai Biden e da Harris, sposati acriticamente, fossero onesti. Non hanno capito quale fosse la vera natura della politica estera americana.
Sin dal primo giorno del suo secondo insediamento alla Casa Bianca Trump non ha fatto mistero di voler seguire, come annunciato in campagna elettorale, il modello del lontano predecessore William McKinley, (terzo presidente Usa ad essere assassinato in quaranta anni dopo Lincoln e Garfield, un po’ come nei primi decenni dell’impero romano) e del successore Theodore Roosevelt che perseguivano con metodi rudi l’esclusivo interesse della nazione americana.
Vale perciò la pena di rileggere brevemente la storia di quel periodo la cui conoscenza faciliterà il compito di chi voglia evitare ora ulteriori sorprese, prevenire le sue mosse con misure politiche adeguate, impostare una politica altrettanto robusta e meno servile per la difesa degli interessi europei.
Nel XIX secolo gli Stati Uniti, seguendo la dottrina Monroe, avevano fatto del nazionalismo, finalizzato alla rigida difesa dei valori americani, la loro bandiera. Bisognava evitare di assumere impegni vincolanti con altri Paesi e soprattutto non fare guerre che non fossero direttamente collegate alla sicurezza nazionale. Si puntava su una strategia di politica estera rivolta al proprio continente, considerato il giardino di casa, racchiusa nel motto “l'America agli americani” (oggi mutuato in “Make America Great Again”).
McKinley, repubblicano di origine irlandese, fu eletto nel 1897 presidente dopo un’aspra e dispendiosa campagna elettorale, contando sul decisivo apporto dell’industriale Mark Hanna (come Trump con Musk) vero stratega della comunicazione porta a porta e della raccolta di fondi
McKinley riscosse subito grandi successi: l’aver vinto in pochi mesi la guerra contro la Spagna per la liberazione di Cuba, originata dall’affondamento della corazzata Maine (tipo incidente del golfo del Tonchino), la sottrazione al dominio spagnolo delle colonie di Portorico e Guam, l’annessione delle Hawaii gli valsero la rielezione per un secondo mandato. Il suo vice, e poi successore, Theodore Roosevelt era considerato dal partito repubblicano un avventuriero, un "maledetto cowboy”(critiche non dissimili da quelle rivolte a Trump).
Se McKinley sosteneva con estremo vigore il protezionismo, l'imposizione di alti tassi doganali sulle importazioni, e l’abbandono del bimetallismo con il ritorno al regime aureo come formula per garantire la prosperità nazionale (tipo Trump), Roosevelt, come molti americani del suo tempo, nutriva sentimenti di disprezzo verso gli immigrati, i neri e gli indiani d’America. Si racconta di una sua espressione, odiosa per un capo di Stato, mentre le guerre indiane erano ancora in corso "Io non arrivo al punto di pensare che gli unici indiani buoni siano gli indiani morti, ma credo che nove su dieci lo siano, e non dovrei indagare troppo a fondo sul decimo."
Anche l’azione politica di Roosevelt fu caratterizzata da un fervente nazionalismo sostenitore del preminente ruolo degli USA in tutti gli affari mondiali, con un interventismo ben oltre la sfera di influenza geopolitica limitata al continente americano. Per questo fu considerato dagli storici il maggior promotore dell’imperialismo yankee a livello mondiale.
Basta citare le sue manovre spregiudicate e oscure per la conclusione di un accordo per la costruzione del canale di Panama (tema rinverdito oggi da Trump).
Il progetto del canale, studiato da ingegneri italiani per conto della Spagna sin dal XVI secolo, sembrò vicino alla realizzazione grazie ad un accordo tra la Colombia (proprietaria dell’istmo) ed un’impresa francese che però dovette arrendersi per l’esorbitante costo dell’opera.
Gli Stati Uniti, consci dell’importanza strategica del canale per il collegamento con la costa pacifica, proposero di riscattare a suon di dollari i lavori già compiuti e abbandonati dalla Francia. La Columbia, timorosa dell’invadenza del vicino di casa, era piuttosto riluttante a dare il suo consenso, ma si piegò alla minaccia americana di pesanti ritorsioni. Accettò “obtorto collo” di firmare nel 1903 il trattato di concessione che però non fu ratificato entro i termini concordati con irritazione del Governo di Washington.
Dopo solo due mesi dalla mancata ratifica, in Colombia scoppiò la rivoluzione, fomentata e appoggiata apertamente dagli Stati Uniti, che sfociò nell'indipendenza della provincia di Panamá.
Il Governo americano ebbe così buon gioco nell’ottenere dalla neonata repubblica di Panama, della cui indipendenza si fece garante contro la Colombia, condizioni favorevolissime compreso l’uso perpetuo di una striscia di territorio per la costruzione del canale.
L’ambizione di poter giocare un ruolo politico a livello mondiale fu coronata nel 1905 dal successo nel ruolo di mediatore, svolto da Roosevelt, nel conflitto tra Russia e Giappone (sembra di rivedere l’attivismo di oggi per la composizione della guerra tra Russia e Ucraina).
L’impresa di pacificazione gli valse un’enorme popolarità internazionale, tanto che l’anno dopo, a lui che era un accanito militarista, fu attribuito il premio Nobel per la pace (sogno che ora coltiva Trump vantando già il merito concreto della pace in Afghanistan rispetto a Obama, premiato per piaggeria internazionale per aver fatto nulla).
Roosevelt scampò nel 1912 anche ad un attentato con arma da fuoco: fu ferito, ma senza gravi conseguenze (come Trump).
Bastano questi riferimenti per spiegare l’apprezzamento di Trump verso i suoi due predecessori.
Quanto all’imperialismo americano va detto che si è manifestato in modo aggressivo dopo la I guerra mondiale con il ritiro dalla Società delle Nazioni, la non ratifica dei trattati di pace, i provvedimenti restrittivi nei confronti dei lavoratori stranieri, la limitazione dell’immigrazione attraverso una severa selezione nei campi allestiti a Ellis Island.
Gli Stati Uniti, interessai all’area del Pacifico più che all’Europa, non sarebbero intervenuti nella II guerra mondiale, nonostante le forti pressioni di Churchill, se non vi fossero stati costretti dall’attacco del Giappone a Pearl Harbour il 7dicembre 1941 e non avessero ricevuto, solo 4 giorni dopo, la folle dichiarazione di guerra dalla Germania nazista e dall’Italia fascista.
A guerra mondiale vicina alla fine con la Gran Bretagna e l’URSS si accordarono a Yalta (Crimea) sulla divisione del mondo in zone di influenza in Europa, nei Balcani e nel Nord Africa associandovi poi, a guerra finita, la Francia.
Gli Stati Uniti, seppur consci della loro superiorità atomica, temevano che la poderosa forza dell’Armata rossa costituisse in Europa una seria minaccia ai loro interessi geo strategici e decisero la creazione di un patto politico militare N.A,T.O. (North Atlantic Treaty Organization), firmato a Washington nel 1949 da altri 11 paesi fondatori (Belgio, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo e Regno Unito), cioè tutti nani politici che dovevano all’America la liberazione dal nazismo. La Germania, su cui gravava lo stigma di paese aggressore, rimasta per 10 anni sotto occupazione militare americana, aderì al patto solo nel 1955 tre anni dopo l’associazione di Grecia e Turchia.
L'immediata risposta sovietica all’incorporazione della Germania Ovest nella NATO fu la creazione lo stesso anno del Patto di Varsavia (Treaty on Friendship, Cooperation and Mutual Assistance), stipulato dall’Unione Sovietica con Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Bulgaria, Romania, Albania e Germania Est.
In epoca di guerra fredda tra le due superpotenze l’Italia accettò di buon grado di ripararsi sotto l’ombrello atomico americano, ma vi rimase in una condizione di subalternità che via via si trasformò, data la sproporzione di forze e di peso internazionale, in un rapporto ancillare, di cavalier servente, di affittacamere, di servitù a sovranità limitata, oggi non più giustificata per le mutate condizioni internazionali.
La caduta del muto di Berlino, lo scioglimento del Patto di Varsavia, la dissoluzione dell’Urss, sembravano ragioni sufficienti per aprire un’epoca di distensione generale quale non era stata conosciuta durante la guerra fredda.
Invece, mentre la Russia sprofondava in una grave crisi economica, gli Stati Uniti coglievano l’occasione per ribadire la loro leadership mondiale, attribuendosi nuove competenze e trasformando la NATO nel braccio armato dell’ONU capace di esercitare potere e controllo ovunque nel mondo.
La NATO dal 2014 non ha fatto altro che aumentare la propria presenza militare in Paesi confinanti con la Russia (Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania) e l’aver allargato i suoi confini a 30 Stati membri, fin sotto la soglia di casa della superpotenza atomica, non fu una mossa politica intelligente come dimostreranno i fatti nel decennio successivo.
La crisi cui stiamo assistendo da tre anni, scaturita dalla politica di accerchiamento della Russia e dal rifiuto occidentale di concordare un quadro di garanzie e sicurezza reciproche, concretizzatasi nell’invasione dei territori russofoni dell’Ucraina ha dimostrato come fosse stata ottusa la politica Nato. Si è preferito, boicottando ogni possibile intesa, spingere cinicamente l’Ucraina al sacrificio, facendo finta di difenderla, con l’intento di fiaccare la potenza russa in modo da avere poi maggiore agilità nella sistemazione dei conti nel Pacifico con la Cina e la Corea del Nord.
Ora Trump ha scoperto le carte: pace con la Russia e abbandono dell’Ucraina al suo destino con pretesa di restituzione in natura dei prestiti di guerra. I dirigenti politici europei (Von der Leyen, Stoltenberg, Metsola, Rutte, Macron, Meloni, Scholz, Starmer) che avevano obbedito come tanti scolaretti nel propugnare la guerra contro la Russia fino alla vittoria dell’Ucraina (guerra che si sapeva persa dall’inizio), si sono trovati improvvisamente scoperti, mostrando al mondo intero quanto fossero ridicoli i loro propositi bellicosi e vane le reiterate promesse di appoggio all’Ucraina, invitata sempre al tavolo di ogni vertice.
Con rifornimenti per 100 miliardi di euro in armi, diventate ben presto ferro vecchio fumante e continue visite di sostegno hanno indotto Zelenski a sacrificare inutilmente più di 150 mila morti, a perdere un quinto del territorio, metà della capacità industriale, e oltre 6 milioni di rifugiati all’estero.
Che Trump ripetesse con l’Ucraina lo stesso schema di abbandono degli alleati già adottato dagli Stati Uniti con il Vietnam, con l’Afghanistan, con i curdi, era intuibile, ma solo i ciechi volontari non hanno voluto vederlo. Credevano di svolgere il compito di alleati ed invece erano solo dei cavalieri serventi degli interessi mondiali altrui. E i servi, si sa, sono utili finché servono il padrone, poi possono essere licenziati.
La parola “alleanza” dal latino” allĭgare " cioè “legare a” si riferisce ad un accordo internazionale tra Stati che si impegnano ad aiutarsi, assistersi e difendersi reciprocamente nel raggiungimento di un obiettivo politico comune ben definito. Scambiare l’alleanza per servilismo è un errore esiziale che si riflette sull’intero paese, sulla sua rispettabilità, sulle scelte economiche e sociali, sull’avvenire delle successive generazioni.
Risulta forse che gli Stati Uniti abbiano trattato gli alleati come partner alla pari in un progetto politico comune in cui dividere equamente oneri e onori? Forse si è dimenticato che il maggior peso economico della guerra è stato scaricato proprio sugli alleati?
Trump, meno ipocritamente e in modo scoperto rispetto al predecessore, ha gettato più di un sasso nelle acque conformiste e stagnanti della politica internazionale. Volendo ripetere quanto fatto dagli Stati Uniti nel 1867 con l’acquisto dell’Alaska dalla Russia, ha manifestato l’ambizione di comprare la Groenlandia dalla Danimarca, di incorporare il Canada, di mettere sotto pressione il Messico e il Venezuela, di respingere e deportare gli immigrati, di occupare Panama che si è permesso di concedere alla Cina l’operatività delle imboccature del Canale, di rivalutare l’oro e le criptovalute, di imporre dazi punitivi verso la Cina e anche verso l’Europa senza distinzione tra alleati e avversari, e infine di avviare con Mosca, non solo negoziati diretti sull’Ucraina mentre gli europei varano un nuovo pacchetto di sanzioni anti Russia, ma anche una cooperazione nell’Artico.
Le Cancellerie europee e i loro Parlamenti anziché reagire di fronte a questo voltafaccia persino Draghi ha lanciato il monito “do something”) hanno smarrito il senso della saggezza e continuato nell’ipocrita acquiescenza di rifiutare ogni iniziativa diplomatica, in obbedienza alle direttive date fino all’anno scorso da chi, a distanza di sicurezza di migliaia di chilometri, dettava le regole di ingaggio ed esaltava l’incitamento alla continuazione dello scontro, preferendo curarsi della crescita del fatturato dell’industria delle armi e delle fonti energetiche, piuttosto che avere pietà per le vittime.
L’Italia, presidente di turno del G7 non ha avanzato nessuna iniziativa diplomatica per l‘Ucraina: Meloni volendo apparire più schierata degli altri, è andata a Kiev non a perorare la pace, ma a spingere per la guerra firmando una intesa di cooperazione militare.
La domanda da porre oggi al Governo e al Parlamento è se hanno mai messo sul tavolo la necessità di un riequilibrio politico nei rapporti con gli Stati Uniti che ci hanno visto sempre nel ruolo di palafrenieri non solo nelle servitù militari nel nostro territorio, ma anche nel coinvolgimento in tutte le disastrose avventure militari all’estero.
Meloni deve ben valutare, ascoltando il Parlamento e l’umore nazionale, ogni mossa prima di continuare a percorrere una strada pericolosa e senza sbocco. La sfida per l’Italia è quella di recuperare una dignità perduta senza cedere alle logiche di convenienza imposte da una superpotenza sempre più distante dal concetto di alleanza paritaria.
Torquato Cardilli
20 febbraio 2025
Trump non la calcola proprio a Meloni..
RispondiEliminaGiorgia Meloni è una leccaculo
RispondiEliminaE' mai possibile che non vi siate accorti che sul nostro territorio campeggiano oltre 12 mila militari Americani con oltre 120 basi conosciute? Non siamo alleati, siamo vassalli!!!
RispondiEliminaIl problema è che la maggior parte dei tg e dei giornali fanno da grancassa al governo, di conseguenza la percezione della realtà è distorta. In questo quadro Meloni gestisce il potere che la sua maggioranza gli garantisce. Una vergogna
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