di Francesco Gallo Mazzeo - Quella di Enzo Sellerio è stata una vicenda umana, culturale e artistica, di grande ricchezza, aneddotica e fattuale, che ha osservato e ha attraversato anni non privi di drammaticità e di tragedia, della storia di Palermo, della Sicilia e dell’Italia intera, certamente connessi con l’aura dei momenti sapienti e innovativi della sua fotografia,
che è all’origine di una vera scuola, in cui il verismo e il realismo, si coniugano con le ragioni di una forma, che non ammette repliche, con una velocità di taglio prospettico, che è un unicum con il fissarsi delle luci e delle ombre, che danno alle sue figure, ai suoi ritratti, un aspetto iconico, di grande forza emblematica, paragonabile solo ai testimoni della Terra Trema, di Luchino Visconti, alle scansioni ritmiche, della prosa, del suo amico Leonardo Sciascia.
Un instancabile viaggiatore, anche quando faceva il giro intorno alla sua casa o intorno a se stesso ed era in grado di cogliere aspetti inediti di verità, se non addirittura eterni ritorni che si attaccano ai luoghi e alle persone che la modernità ha appena sfiorato, certamente significativi, perché tali appaiono ancora oggi, anche adesso, qui ed ora, che tutto il mondo sembra cambiato, spesso in peggio, con gli aborigeni papua in scarpe di nike e le ape car con panelle e voci televisive, mentre sono scomparse tutte le Filomena e i Calogero, risucchiati via in favore di schiere di Jessica e Cristhian. Anzi, proprio per questo, le verità di Sellerio, da cui, direttamente o indirettamente discendono autentici maestri come Melo Minnella, Ferdinando Scianna, Giuseppe Leone e decine e decine di giovani protagonisti che senza Sellerio non sarebbero nemmeno esistiti.
La fotografia di Sellerio, ha in sé tutte quelle caratteristiche, che la fanno definire classica, per la capacità di cogliere, nel degrado, nella disarmonia, nella povertà, le possibilità di un linguaggio alto, ieratico, quasi, di un vero genio che ha guardato molto, studiato molto, arrivando ad un saper vedere, ad un comprendere, che è visibilità, colta, sapiente, oltre che intuito, sottigliezza, di andare nel sottopelle, a leggere l’antropologia che c’è sotto il folclore, la psicologia nascosta dai luoghi comuni, il sentimento ingarbugliato dai gesti, l’emozione trattenuta dal rossore, facendo così parlare anche le pietre e le atmosfere di silenzio, che circondano il tutto e tutto. La sua fotografia, in apparenza spontanea e immediata, quanto preceduta da una autentica ragione del saper vedere, segna una pagina e forse un intero capitolo della vicenda di tutti noi, inteso come nome collettivo di tutti noi, di più generazioni all’inferno, con una consapevolezza indiretta, atmosferica, perché la sua era un’ affermazione, precisa, decisa e non una mera denuncia di qualcuno o di qualcosa, ma è un discorso con una sua valenza universale, che si può chiamare Sicilia, che si può chiamare mondo. Perché questa era la sua ambizione, rivelata ed esaudita, di essere sempre se stesso, senza infingimenti, dicendo con le sua immagini, cose che, in questo modo, nessuno aveva mai detto o fatto vedere.
Nei miei numerosi incontri e dialoghi, con lui, negli anni ottanta e novanta, compreso un viaggio da Palermo a Paternò, non ho mai avuto un dubbio, sul fatto che la sua cultura immaginaria, fosse un passo in direzione diversa dall’ordinario, ovunque e ricordo d’avere visto i provini di tutto il fotografato, di un suo lungo andare in America, tra genti, grattacieli e metrò, a testimonianza che, ovunque fosse, riuscisse sempre a cogliere le energie invisibili, a cui spetta il merito e la responsabilità, di tutto quello che accade, che non sempre è come lo desideriamo e come ce lo aspettiamo: questa è la sua verità d’artista (penso, negli ultimi dieci anni, d’averlo visto poco e di sfuggita).
Parlare della sua attività editoriale, vuol dire, tornare ancora alla figura di Leonardo Sciascia e della moglie Elvira Giorgianni e seguire le vie maestre di un radicamento non speculare, nella Palermo del centro storico, dagli esterni indefinibili e severi e degli interni di un barocco, così ricco che toglie il fiato, con o senza Serpotta, con o senza Gagini e poi delle stelle filanti di Felice Chilanti, Mauro De Mauro, Mario Farinella, Gastone Ingrascì, che a molti non diranno niente, ma a tanti altri parlano con parole, che sono come le scalpellate di Francesco Messina, Emilio Greco, Peppino Mazzullo, i grandi della scultura italiana, nati, come Guttuso e Migneco, nelle stesse contrade, in cui si sono allungati, saggi, racconti, romanzi, libri d’arte, a testimoniare di una inguaribile giovinezza, di una curiosità, fondata sui geni dell’illuminismo e aperta agli enigmi del presente, senza arroganze e senza complessi (come i La Terza a Bari, come i Pironti e Guida a Napoli) nella consapevolezza che parlare del mondo è un modo di rivelare e di rivelarsi, con un filo che si fa trama del labirinto e trova sempre la sua via d’uscita, la sua libertà, profonda e irriducibile, come Teseo, come Dedalo. Ad Enzo Sellerio, è toccata questa duplice sorte: un filo per tutta una vita ed oggi le ali.
Francesco Gallo Mazzeo02 marzo 2012
Un instancabile viaggiatore, anche quando faceva il giro intorno alla sua casa o intorno a se stesso ed era in grado di cogliere aspetti inediti di verità, se non addirittura eterni ritorni che si attaccano ai luoghi e alle persone che la modernità ha appena sfiorato, certamente significativi, perché tali appaiono ancora oggi, anche adesso, qui ed ora, che tutto il mondo sembra cambiato, spesso in peggio, con gli aborigeni papua in scarpe di nike e le ape car con panelle e voci televisive, mentre sono scomparse tutte le Filomena e i Calogero, risucchiati via in favore di schiere di Jessica e Cristhian. Anzi, proprio per questo, le verità di Sellerio, da cui, direttamente o indirettamente discendono autentici maestri come Melo Minnella, Ferdinando Scianna, Giuseppe Leone e decine e decine di giovani protagonisti che senza Sellerio non sarebbero nemmeno esistiti.
La fotografia di Sellerio, ha in sé tutte quelle caratteristiche, che la fanno definire classica, per la capacità di cogliere, nel degrado, nella disarmonia, nella povertà, le possibilità di un linguaggio alto, ieratico, quasi, di un vero genio che ha guardato molto, studiato molto, arrivando ad un saper vedere, ad un comprendere, che è visibilità, colta, sapiente, oltre che intuito, sottigliezza, di andare nel sottopelle, a leggere l’antropologia che c’è sotto il folclore, la psicologia nascosta dai luoghi comuni, il sentimento ingarbugliato dai gesti, l’emozione trattenuta dal rossore, facendo così parlare anche le pietre e le atmosfere di silenzio, che circondano il tutto e tutto. La sua fotografia, in apparenza spontanea e immediata, quanto preceduta da una autentica ragione del saper vedere, segna una pagina e forse un intero capitolo della vicenda di tutti noi, inteso come nome collettivo di tutti noi, di più generazioni all’inferno, con una consapevolezza indiretta, atmosferica, perché la sua era un’ affermazione, precisa, decisa e non una mera denuncia di qualcuno o di qualcosa, ma è un discorso con una sua valenza universale, che si può chiamare Sicilia, che si può chiamare mondo. Perché questa era la sua ambizione, rivelata ed esaudita, di essere sempre se stesso, senza infingimenti, dicendo con le sua immagini, cose che, in questo modo, nessuno aveva mai detto o fatto vedere.
Nei miei numerosi incontri e dialoghi, con lui, negli anni ottanta e novanta, compreso un viaggio da Palermo a Paternò, non ho mai avuto un dubbio, sul fatto che la sua cultura immaginaria, fosse un passo in direzione diversa dall’ordinario, ovunque e ricordo d’avere visto i provini di tutto il fotografato, di un suo lungo andare in America, tra genti, grattacieli e metrò, a testimonianza che, ovunque fosse, riuscisse sempre a cogliere le energie invisibili, a cui spetta il merito e la responsabilità, di tutto quello che accade, che non sempre è come lo desideriamo e come ce lo aspettiamo: questa è la sua verità d’artista (penso, negli ultimi dieci anni, d’averlo visto poco e di sfuggita).
Parlare della sua attività editoriale, vuol dire, tornare ancora alla figura di Leonardo Sciascia e della moglie Elvira Giorgianni e seguire le vie maestre di un radicamento non speculare, nella Palermo del centro storico, dagli esterni indefinibili e severi e degli interni di un barocco, così ricco che toglie il fiato, con o senza Serpotta, con o senza Gagini e poi delle stelle filanti di Felice Chilanti, Mauro De Mauro, Mario Farinella, Gastone Ingrascì, che a molti non diranno niente, ma a tanti altri parlano con parole, che sono come le scalpellate di Francesco Messina, Emilio Greco, Peppino Mazzullo, i grandi della scultura italiana, nati, come Guttuso e Migneco, nelle stesse contrade, in cui si sono allungati, saggi, racconti, romanzi, libri d’arte, a testimoniare di una inguaribile giovinezza, di una curiosità, fondata sui geni dell’illuminismo e aperta agli enigmi del presente, senza arroganze e senza complessi (come i La Terza a Bari, come i Pironti e Guida a Napoli) nella consapevolezza che parlare del mondo è un modo di rivelare e di rivelarsi, con un filo che si fa trama del labirinto e trova sempre la sua via d’uscita, la sua libertà, profonda e irriducibile, come Teseo, come Dedalo. Ad Enzo Sellerio, è toccata questa duplice sorte: un filo per tutta una vita ed oggi le ali.
Francesco Gallo Mazzeo02 marzo 2012
Articolo suggestivo. Bella la proposizione su "le immagini che assumono un aspetto iconico! 'La classe ce n'est pas d'eau...". Grazie, Salvo Geraci
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