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mercoledì 28 marzo 2012

Alberto Abate. Pictor Optimus

di Francesco Gallo Mazzeo - L’ho conosciuto molti anni fa, a Messina, attorno ad una tavola imbandita, di tutto punto e lui molto elegante, da pranzo di gala, con movimenti felpati ed inesorabili, per una performance ispirata alla Sposa di Messina, di assoluta aura nicciana, intento a consumare, una dopo l’altra, tutte le portate di pesce, che la componevano.
Da allora è stato tutta un susseguirsi di appuntamenti, su e giù per lo stivale, con intelligenti invenzioni comportamentali, fino a quando non apparve la sua grande pittura, ispirata ad un mondo gotico, magico, inquietante, all'inizio di quella che è stata la stagione della pittura colta, che lo ha visto accanto a Carlo Maria Mariani, a Stefano Di Stasio, a Carlo Bertocci, interpretare, la componente raffinata di un ritorno all'opera, basata sulla tradizione della lezione anacronistica, assumendo un versante delle sembianze di un tocco italiano, insieme alla transavanguardia, del fatto ad arte, affiancato all'universo maturo del poverismo e del concettualismo. Sto parlando di Alberto Abate, romano di nascita e di cultura, ma siciliano d’origine, con una frequentazione catanese, mai interrotta, in cui si possono inscrivere le vicinanze con i fratelli Brancato, Tano e Antonio, prima e con Salvo Russo, dopo, assieme ai suoi tanti allievi, che lo fanno considerare, a tutti gli effetti, una delle più grandi figure del ‘900, che a poco a poco, si sta consegnando, per davvero, alla storia. I miei incontri con lui, erano sempre “sapienziali”, nel senso che ogni volta ne restavi affascinato e cambiato, perché aveva sempre modo di mostrare un lato inedito e inaspettato di una vicenda o di un discorso, che era sempre trattato sul filo di una sorprendente filologia, di una stringente logica, di una forte essenzialità poetica. Perché tutto, da lui, era sempre ricondotto alle porte dell’immaginario, della grande visualità, dai colori saturi di aspettazione fantastica, ai limiti di una incombente metamorfosi, dove di ordinario non c’era niente, neanche le apparenze. Il suo grandissimo vuoto si chiamava Franco Piruca, il Balthus italiano, segreto ai più, pittore e pensatore, morto anzi tempo, che ci ha lasciati tutti più poveri, sia i pochi che l’hanno conosciuto e ne avvertono la mancanza, che i tanti ignari, che non sanno quale ciclone li ha sfiorati, non inferiore a Savinio, non inferiore a De Chirico. La fortuna di Alberto Abate è stata quella di avere assorbito molto di più, di noi tutti della versione di Piruca, mettendola a confronto con la propria e rivelando molti lati oscuri della nostra modernità, capace di essere contemporanea di tempi e di stili diversi, senza essere, mai tradizionalista. Citazionista, si, come può esserlo ogni coscienza libera non solo di tabù, ma che di totem, senza dogmatismi, con limiti segnati, solo, dalla propria coscienza drammatica, anche tragica, ma mai relegata al piagnisteo dei Savonarola e dei moralisti, capace di percorrere le propri teorie e le proprie tematiche, senza inchiodarsi alla propria identità, vissuta sempre dinamicamente e mai ossessionata dalla ripetizione, tanto è vero che negli ultimi tempi le sue figure erano uscite dai vestimenti da impero medievale e da teatralità mozartiana conditi da mitologia pre socratica ed ellenisticamente orientale, per indossare abiti borghesi, con giacca e cravatta, seppure con lo sguardo sempre enigmatico ed ermeneutico. Dopo i fasti degli anni ottanta e novanta, qualche ombra si era posata su di lui e questo aveva fatto aumentare la sua misura di tempo e di spazio, ampliandone la metafora e la capacità di silenzio, fino al punto di farla diventare assoluta. Voglio salutarlo con un verso dechirichiano: pictor optimus.

Francesco Gallo Mazzeo

28 marzo 2012

2 commenti:

  1. Non conoscevo Alberto Abate, dopo aver letto di Lui mi sono documentato, i suoi quadri sono stupendi, alcuni mi ricordano Tamara De Lempicka, altri De Chirico, ma tutti hanno la stessa pennellata,gli stessi colori, la stessa atmosfera quasi surreale e misteriosa, belli, veramente molto belli, mi documenterò ulteriormente su questo grande pittore.
    E' vero, anche, che Lei Prof. Gallo riuscirebbe, con le sue parole, a trasformare una insignificante pietra in una bellissima rosa vellutata, ma in questo caso con Alberto Abate non ha affatto esagerato, Complimenti, è sempre un piacere leggere i suoi articoli.

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  2. Negli ultimi cento anni, cento cinquanta, la Sicilia ha riconquistato la creatività culturale che aveva avuto dai greci in poi, fino alla caduta in mano araba. Con in mezzo un vuoto, non colmato neanche da cattedrali ed echi federiciani, per non parlare di quelli arabi che non mi seducono per niente, perchè alla morte di Agrigento, di Gela, di Siracusa, di Catania, di Taormina, di Enna, non hanno potuto sopperire neanche gli inventori del sonetto:la Sicilia è stata fuori di tutto, nonostante Antonello, Serpotta, Gagini,Juvarra.Questo è stato detto da Giovanni Gentile nel suo "Tramonto dell cultura siciliana" e ribadito da Francesco Renda, nella sua "Storia dell Sicilia" edita da Sellerio. Ma non c'è peggior sordo di chi non vuole sentire, per cui non avere partecipato alla rivoluzione umanistica, al rinascimento e se vogliamo dirla tutta, neanche al barocco, all'illuminismo, non significa niente e vanno cianciando di tesori borbonici, di ricchezze e di primati regnicoli, che niente hanno a che fare col regionalismo di Sturzo, dei fasci siciliani, col patriottismo degli Accursio Miraglia, con la scienza politica di Dorso, Scotellaro(anche poeta)Dolci, Sciascia,stiamo vivendo una lunghissima primavera, di uomini e donne, nel respiro della libertà, che è riuscita a mettere in scacco anche l'onnipotente mafia. I siciliani eccellono in tutti i campi e in tutto il mondo:adesso è il momento di fare eccellere la Sicilia come ai tempi in cui Siracusa diventava per quindici anni capitale dell'impero romano d'oriente, dando quattro papi a Roma e un patriarca a Costantinopoli. Possiamo farcela: abbiamo l'eccellenza, il numero, il coraggio, la volontà.Dobbiamo darci gli strumenti di selezione del ceto dirigente e politico, i luoghi in cui decidere le strategie e le tattiche. E' troppo? Non direi. E' tanto? Sì! Tertium non datur.

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