L'Italia si colloca al 22esimo posto su 34 nella classifica dei salari netti: 19.350 euro. Che, in confronto a chi non ha nulla o non riesce a fare la spesa tutti i giorni, come i pensionati al minimo, è pur sempre una bella somma. Ma le cose vanno male comunque. In Inghilterra la retribuzione netta è di 11 mila euro superiore
a quella media italiana. In Germania quasi 5 mila euro in più, in Francia 2 mila e anche la Spagna è sopra di circa 1.500 euro. Praticamente l'Italia è ultima per livello di salario netto tra i Paesi del G7.
Le retribuzioni dei lavoratori italiani sono basse e tartassate, negli ultimi 15 anni hanno perso ulteriore terreno nei confronti internazionali e, alla faccia dell’equità, la differenza tra i salari più ricchi e quelli più poveri è aumentata.
Il problema è stato molto ben evidenziato da Enrico Marro sul Corriere della Sera giovedì 22 dicembre 2011. La sua analisi si sofferma sulla questione della produttività dei lavoratori italiani. Mentre in Italia è rimasta quasi ferma, ormai da diversi anni, altrove (Regno Unito, Germania, Francia e Olanda) è aumentata. Il tema dei salari bassi è ormai un fatto acclarato, e le responsabilità vanno equamente divise tra forze politiche e sindacati.
Le retribuzioni lorde sono praticamente bloccate dal 1996, con l’aggravante che negli ultimi anni è venuta meno anche la tenuta rispetto all'inflazione ufficiale. E in questo senso, l’abolizione della “scala mobile” (la contingenza), con l'Accordo sul costo del lavoro del 31/7/1992, ha contribuito sensibilmente ad aggravare la situazione. Il sistema di indicizzazione dei salari aveva la funzione fondamentale di garantire il potere d’acquisto delle retribuzioni e metterle al riparo dall’aumento del costo della vita.
Le motivazioni a sostegno della sua abolizione furono che questo meccanismo “perverso” generava inflazione. Le statistiche degli ultimi anni, però, hanno dimostrato che, anche senza “scala mobile”, l’inflazione galoppa in presenza di salari da miseria. Ma questa è un’altra storia.
Tornando all’analisi, l’assenza di un legame vero tra costo del lavoro e produttività genera la scarsa crescita del sistema produttivo italiano che, di conseguenza, non produce effetti virtuosi positivi. In Germania e negli altri Paesi dove si è stabilita una maggiore partecipazione dei lavoratori al risultato dell’impresa si sono registrati, invece, aumento della produttività legata a filo doppio all’aumento dei salari.
Il rimedio è, quindi, mettere mano con urgenza alle riforme strutturali, insieme ad una contrattazione più moderna e partecipativa. Una svolta precisa nel sistema del lavoro: più produttività determina più salario e quindi più potere d’acquisto per i lavoratori. Ovviamente, a patto che il prelievo fiscale e contributivo non aumenti (cuneo fiscale) e che l'inflazione venga tenuta sotto controllo.
Il rilancio della produttività, quindi, deve andare di pari passo alla riduzione della differenza tra il lordo degli stipendi ed il netto percepito. Ma se parlare di produttività e di rilancio può essere messo in atto per i lavoratori delle aziende private, ciò non è per niente facile per i dipendenti pubblici. Per i quali, fino adesso, nonostante i proclami dei vari Brunetta e compagnia dicendo, non si è avviata una vera riforma della pubblica amministrazione che dia ai lavoratori il giusto riconoscimento per il loro impegno al servizio dello Stato e nell’interesse dei cittadini. Superando, finalmente, la diffusa opinione di lavoratori privilegiati, garantiti e assistiti.
Le retribuzioni dei lavoratori italiani sono basse e tartassate, negli ultimi 15 anni hanno perso ulteriore terreno nei confronti internazionali e, alla faccia dell’equità, la differenza tra i salari più ricchi e quelli più poveri è aumentata.
Il problema è stato molto ben evidenziato da Enrico Marro sul Corriere della Sera giovedì 22 dicembre 2011. La sua analisi si sofferma sulla questione della produttività dei lavoratori italiani. Mentre in Italia è rimasta quasi ferma, ormai da diversi anni, altrove (Regno Unito, Germania, Francia e Olanda) è aumentata. Il tema dei salari bassi è ormai un fatto acclarato, e le responsabilità vanno equamente divise tra forze politiche e sindacati.
Le retribuzioni lorde sono praticamente bloccate dal 1996, con l’aggravante che negli ultimi anni è venuta meno anche la tenuta rispetto all'inflazione ufficiale. E in questo senso, l’abolizione della “scala mobile” (la contingenza), con l'Accordo sul costo del lavoro del 31/7/1992, ha contribuito sensibilmente ad aggravare la situazione. Il sistema di indicizzazione dei salari aveva la funzione fondamentale di garantire il potere d’acquisto delle retribuzioni e metterle al riparo dall’aumento del costo della vita.
Le motivazioni a sostegno della sua abolizione furono che questo meccanismo “perverso” generava inflazione. Le statistiche degli ultimi anni, però, hanno dimostrato che, anche senza “scala mobile”, l’inflazione galoppa in presenza di salari da miseria. Ma questa è un’altra storia.
Tornando all’analisi, l’assenza di un legame vero tra costo del lavoro e produttività genera la scarsa crescita del sistema produttivo italiano che, di conseguenza, non produce effetti virtuosi positivi. In Germania e negli altri Paesi dove si è stabilita una maggiore partecipazione dei lavoratori al risultato dell’impresa si sono registrati, invece, aumento della produttività legata a filo doppio all’aumento dei salari.
Il rimedio è, quindi, mettere mano con urgenza alle riforme strutturali, insieme ad una contrattazione più moderna e partecipativa. Una svolta precisa nel sistema del lavoro: più produttività determina più salario e quindi più potere d’acquisto per i lavoratori. Ovviamente, a patto che il prelievo fiscale e contributivo non aumenti (cuneo fiscale) e che l'inflazione venga tenuta sotto controllo.
Il rilancio della produttività, quindi, deve andare di pari passo alla riduzione della differenza tra il lordo degli stipendi ed il netto percepito. Ma se parlare di produttività e di rilancio può essere messo in atto per i lavoratori delle aziende private, ciò non è per niente facile per i dipendenti pubblici. Per i quali, fino adesso, nonostante i proclami dei vari Brunetta e compagnia dicendo, non si è avviata una vera riforma della pubblica amministrazione che dia ai lavoratori il giusto riconoscimento per il loro impegno al servizio dello Stato e nell’interesse dei cittadini. Superando, finalmente, la diffusa opinione di lavoratori privilegiati, garantiti e assistiti.
I problemi restano tutti ancora aperti.
PoliticaPrima
26 dicembre 2011
Tutto aumenta meno che le retribuzioni, aumentano pure i precari di varie provenienze e di seguito l'esborso per pagarli. Chissà perchè i precari vengono assunti solo dalle Istituzioni pubbliche e mai dai privati. E' sicuramente una scelta di vita dei precari resistere,resistere e resistere. Mettere in ginocchio le città con gli scioperi, non accettare le poche possibilità che, se anche frutto di sacrifici, il privato può offrire.
RispondiEliminaL'impiego sicuro è l'obbiettivo che poi paghiamo tutti e per l'efficienza (abbiamo intasato tutti gli uffici senza che nessuno garantisca produttività) e per il lato economico. Per pagare tutto questo che facciamo blocchiamo le pensioni, aumentiamo l'IRPEF, rimettiamo l'ICI, aumentiamo la TARSU, aumentiamo il biglietto dell'autobus e chi più ne ha più ne metta.
Per carità non è una dichiarazione di guerra ai precari ma per i ragazzi che vogliono entrare nel mondo del lavoro tutto si complica.
E che dire di noi pensionati che ci fanno sentire in colpa perchè rubiamo la futura pensione dei nostri figli? Ma di quale futura pensione parliamo, se non esistessero i pensionati di oggi i nostri figli già da OGGI andrebbero a mendicare o forse a rubare per poi poter avere uno straccio di lavoro perchè ex detenuti.
Meditate gente, meditate.
GIUSEPPE A.
Passato Natale Monti ha iniziato a preparare la Fase 2 , cioè le riforme strutturali per la crescita .
RispondiEliminaDomanda : quali riforme per la cresita di chi o che cosa ?
Si dice per la crescita del PIL . Bene! Ma qusto vuol dire per fare crescere il fatturato , quindi il profito degli industruali . E il reddito dei lavoratori e dei pensionati come li farà crescere ? Ma soprattutto , come darà lavoro ai giovani inoccupati e ai disoccupati ? Lo vedremo .
Credo ci vorrebbe un piano straordinario per chi non ha lavoro , ma di questo non è sentito parlare . Si parla solo dei dipendenti pubblici che gadagnano troppo e producono quasi niente .
Le solite storie . Mai nessuno che ricordi che la produttività dei dipendenti pubblici non si misura con quantità di beni prodotti ( questo può valere solo per i privati ) , ma con l'efficienza della P.A. : cioè avere risposta (servizi)in tempi brevi e soddisfacenti . Il fine della P.A. è maggiore efficienza a parità di spesa ; quello dei privati è il lucro , cioè produrre e vendere più beni (cose )a parità di salario .
Temo che la prima riforma strutturale del pubblico sarà una riduzione (immediata) del salario attuale che potrà essere aumentato (cioè mai)solo da una maggiore efficienza (futura) che è impossibile da monitorare (lo sanno tutti).
e i giovani e i disoccupati ? Tutto tace .
E' vero. Lavoratori sempre più poveri!!!!
RispondiEliminaMa quanti di questi lavoratori "sempre più poveri" fanno un secondo lavoro NERO al pomeriggio o nei festivi o quando sono in cassa integrazione o quando non hanno il turno alla forestale o quando sono "accompagnati" alla pensione tipo quelli della Fiat di Termini Imerese?
Chissà perché non c'é nessuno che scaglia la prima pietra!
In linea generale sono d'accordo sull'articolo; sottolinierei, fondamentalmente, l'indispensabilità di accompagnare alla "...partecipazione dei lavoratori al risultato di impresa ..." una sana ed equa riforma in materia fiscale,che consenta di mantenere alto il potere d'acquisto dei salari soprattutto riguardo ai beni di consumo.........
RispondiEliminae pensare che prima queste cose venivano fatte solo dai barboni, oggi sono i nuovi poveri a raccogliere gli scarti davanti i supermecati perchè la crisi non permette loro più di acquistarli
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